Carnevale, ovvero “carnem levare”: un abbandono della carne che culmina nel Martedì grasso, il giorno che precede il Mercoledì delle ceneri. E’ il punto di avvio della Quaresima, in cui l’uomo deve ricordarsi di essere polvere. Ma, prima, tutto (o quasi) è permesso, in un turbinio di colori, travestimenti e passioni. Oggi in Italia i Carnevali più noti sono quelli di Venezia, per le maschere che rendono ancor più magica un luogo già unico di suo, e quello di Viareggio, per i suoi sorprendenti e articolati carri allegorici. Ma sotto i Savoia il Carnevale di Torino era uno degli appuntamenti più attesi, anche da chi non viveva in città. Giornate di festa che attiravano folle per le vie e che contrastavano la fama di una Torino grigia e severa.
Gianduja o Gianduia? Non ci sono regole specifiche per scrivere il nome della tipica maschera torinese, come non ci sono per indicare l’impasto di cioccolata alla base di dolci e gelati. Diciamo che i più anziani sono maggiormente legati al nome del tempo che fu, con quella “j” alla base dell’etimologia del nome. Perché Gianduja è la contrazione di Gioann dla doja, ovvero Giovanni del boccale in piemontese. Non inganni il riferimento al vino, perché Gianduja ama sì bere ma, come ogni piemontese, lo fa a ragion veduta. E la maschera tipica di Torino è la summa del carattere regionale. Ovvero una persona che ama i piaceri della vita ma senza esagerare mai (al grido di “esageruma nen”), di carattere incline al privato ma pronta a darsi da fare quando c’è un problema o da aiutare qualcuno. Gianduja nasce come burattino nel XVIII secolo, inizialmente è un contadino di nome Gironi alle prese con le prepotenze del potere, da cui subisce ogni sorta di ingiustizia. Una maschera “politica”, che lo diventa ancor più nel periodo Napoleonico, con problemi per chi dava vita alle sue storie. Così a inizio Ottocento si trasforma in Gianduja, dal carattere un po’ più con conservatore e, quindi, più piemontese. L’abbigliamento è rimasto immutato da allora, con la caratteristica parrucca con codino e con l’ancora più caratteristico cappello a forma di tricorno. Gianduja è da subito il protagonista del vivacissimo Carnevale torinese, insieme con la sua compagna Giacometta, donna saggia e avveduta.
E il volto di Gianduja spicca sulle tipiche caramelle di Carnevale. Si tratta di una sorta di lecca-lecca ma senza lo stecco, proposto in diversi formati. La tradizione vuole che quelli più grandi vengano spezzati con un colpo secco, distribuendone poi i frammenti. Le caramelle sono state inventate dalla Icaf, una piccola azienda familiare che si trova a Torino in corso Moncalieri 204. Oggi, come allora, le propone soltanto nelle due settimane dedicate al periodo di Carnevale. E a questi giorni viene anche legata l’origine di altri due eccellenze torinesi: il cri-cri e, soprattutto, il giandujotto, il cioccolatino che identifica una città. Si tratta di una storia molto pratica: Gianduja e i suoi compari salivano sui carri allegorici dai quali lanciavano confetti e caramelle. Ma si trattava di prodotti che si rovinavano al contatto con il terreno e che, soprattutto, non erano incartati. Qui c’è la prima svolta, con la scelta di proteggerli con un involucro che era – ed è – coloratissimo per i cri-cri, nocciole Piemonte immerse nel cioccolato e poi ricoperte di granellini di zucchero.
Allo stesso modo venivano avvolti nella carta e poi lanciati alla folla i giandujotti, che proprio al Carnevale devono la loro popolarità. La data ufficiale di nascita del giandujotto risale al 1865 ma l’ideazione risale a poco più di dieci anni prima. Il merito è del pasticciere Michele Prochet che, posto di fronte alla scarsezza – e relativo alto prezzo – del cacao, per il blocco commerciale imposto dalla Francia al Continente, amalgama al cioccolato nocciole tostate e tritate anziché fatte solo a pezzi. Il nuovo cioccolatino si chiama givu (o givo: mozzicone di sigaro in piemontese), vede la luce nella Caffarel di Ernesto Alberto, nipote di quel Pier Paul che, a San Donato, aveva aperto una fabbrica di cioccolato trasformando una conceria. La Caffarel è tra le aziende che prendono parte al Carnevale. In quello del 1865 Gianduja lancia sulla folla i givu che, da quel giorno, diventano giandujotti, unici a loro modo anche perché avvolti nella stagnola. Nasce il mito del cioccolatino a forma di barca rovesciata, un evento celebrato dalla Caffarel con il nome Gianduja e la data 1865 sulle scatole, unica azienda che possa ancora fregiarsi di tale onore.
E non è Carnevale se non ci sono le bugie. Parliamo di un dolce semplicissimo, realizzato con farina, uova, burro e scorza di limone. L’impasto così ottenuto viene tirato a macchina e poi tagliato nelle forme che più piacciono. Ci sono due possibili varianti per la cottura. Quella più popolare, richiede la frittura in padella con olio bollente. Quella, diciamo, più “salutista” prevede invece la cottura al forno. Entrambe vengono alla fine cosparse di zucchero a velo. Esistono poi anche le bugie ripiene, con marmellata, cacao oppure crema. Il dolce è conosciuto con questo nome in Piemonte, la cui origine è ligure. Ci sono variabili locali come gasse (provincia di Alessandria), gale o gali (tra Vercelli e Novara), risòle (nel Cuneese). Differenze che si ripetono a livello nazionale con chiacchiere (Napoli), cencetti (Firenze) e frappe (Roma), giusto per fare tre esempi.
In Piemonte, infine, il Carnevale più popolare è sicuramente lo Storico Carnevale di Ivrea, in cui l’arancia è regina. E’ un evento riconosciuto come di rilevanza internazionale fin dal 1956 e le cui radici affondano nel Medio Evo. Rievoca i tempi dei Comuni e il simbolo principale è Violetta, la figlia di un mugnaio che non vuole sottostare alle regole dello jus primae noctis al punto da decapitare il barone che avrebbe voluto abusare di lei. E’ l’avvio di una rivolta della città contro la nobiltà: viene distrutto il castello e Ivrea si trasforma in Comune. Un proclama contro cui i feudatari della zona cercano di opporsi, mandando le loro truppe per imporre l’ordine. Un episodio rievocato dalla Battaglia delle arance, evento clou del Carnevale. In origine si lanciavano fagioli, in memoria del rifiuto sprezzante con cui le famiglie povere rispedivano al mittente (al barone) la pignatta che donava loro due volte l’anno. Legumi poi sostituiti nell’Ottocento dalle arance, che le donne lanciavano sui carri per attirare l’attenzione dei ragazzi (che, a loro volta, rispondevano). Oggi la Battaglia delle Arance coinvolge nove squadre di almeno 4.000 tiratori e viene combattuta senza esclusioni di colpi. A Ivrea dicono che più violento è il tiro, maggiore è il rispetto per l’avversario. Il risultato? Qualche occhio nero, al più, anche per la sorveglianza del Generale, cui viene demandato il compito di sorveglianze affinché tutto fili liscio.