Un paesaggio disegnato dalla vite, questo è il Piemonte. Non c’è collina che non abbia un vigneto, non c’è orto che non abbia un filare, non c’è un cortile (oggi molti di meno, ma ne esistono ancora, anche a Torino) che non abbia un bersò, il pergolato dove trovare ombra durante la stagione calda. L’autunno non si carica soltanto di colori inaspettati, ma è il momento in cui la nostra regione raccoglie i frutti di un lavoro cominciato non appena è stato staccato l’ultimo grappolo della vendemmia precedente. Un lavoro faticoso e appassionato, che deve fare i conti con la clemenza del tempo. Serve un delicato equilibrio tra la temperatura e le piogge, come avvenuto in questo 2016, che si prospetta – raccontano gli esperti – come una delle “migliori annate mai messe in cantina”. E che sia una ricchezza che fa girare l’economia del Piemonte, lo dimostra il dato 2015: l’export del vino, in direzione Stati Uniti, ha portato in cassa 200 milioni di euro. Vi accompagniamo in un breve viaggio nei luoghi della vendemmia che occorre conoscere.
Sedici Docg (Denominazione di origine controllata e garantita) e 42 Doc (Denominazione di origine controllata): questi i tesori del Piemonte. Due i prodotti che ne hanno decretato la fama internazionale, ovvero Barolo e Barbaresco, eccellenze delle Langhe, alla destra del fiume Tanaro. La zona del primo comprende undici comuni. In tre di questi, Barolo, Castiglione Falletto e Serralunga d’Alba, viene prodotto sulla totalità del territorio. Negli altri otto, che sono Cherasco, Diano d’Alba, Grinzane Cavour, La Morra, Monforte d’Alba, Novello, Roddi e Verduno, si affianca ad altri vini. Il Barolo è monovitigno, esclusivamente prodotto con uve di nebbiolo. Un’eccellenza ulteriormente impreziosita dal fatto che la Docg può essere accompagnata da un’ulteriore menzione geografica che denota la sottozona di produzione, come i cru francesi. Nomi come Brunate, Ginestra, Monprivato e Cerequio fanno parte del patrimonio degli amanti del Barolo. E la Francia entra anche nella storia di questo vino. Fu Giulia Colbert – moglie del marchese Tancredi Falletti di Barolo – a introdurre in Italia le tecniche di vinificazione provate nel paese d’origine (lei era francese della Vandea). La marchesa non si dedicava solo a grandi opere di beneficenza a Torino, ma era pure attenta ai patrimoni di famiglia. Come il suo amico Camillo Benso conte di Cavour che, tra i consulenti, aveva l’enologo Louis Oudart: a Barolo effettua i primi tentativi di vinificazione del nebbiolo, dando vita al Barolo. Parliamo di un vino importante, messo in commercio dopo 36 mesi (di cui 18 in botti di legno), che può invecchiare fino a trent’anni senza perdere di consistenza. Un giro per le Langhe permette di conoscere gioielli come i castelli di Barolo (dove visse Silvio Pellico), Grinzane Cavour e Verduno, di visitare luoghi insoliti come l’Auditorium Horszowski a Monforte, passeggiare per una città storica come Cherasco, ammirare le colline dal belvedere di La Morra e, ovviamente, concedersi eccellenti momenti a tavola.
Il Barbaresco è considerato, a torto per molti, il fratello minore del Barolo. Non solo perché il disciplinare richiede un periodo più breve di invecchiamento (24 mesi) ma anche perché ritenuto di minore corposità e struttura. Un equivoco da cui il Barbaresco comincia ad affrancarsi a fine Ottocento quando nasce la Cantina Sociale nel comune omonimo, dove oggi viene ancora prodotto, oltre che nei territori di Neive e Treiso. Come per il Barolo, la base è il nebbiolo. E come per il Barolo, i nomi dei vigneti indicano le eccellenze: Asili, Marcarini, Martinenga e Rabajà sono alcuni dei più conosciuti. Organizzate un viaggio per visitare l’enoteca regionale, ospitata nella chiesa di San Donato a Barbaresco. A Neive potrete passeggiare tra le vie di quello che fu un borgo medievale (testimoniato dalla Torre dell’orologio, risalente al XIII secolo), mentre la piccola Treiso vi farà innamorare per gli scorci che apre sulle colline.
Se Barolo e Barbaresco sono vini di eccellenza, la Barbera (al femminile, come si usa tra i piemontesi doc) è più “democratica”. Non solo perché è stata il vino del popolo per secoli ma, soprattutto, perché copre il 35% della superficie vitata della regione, avendo Monferrato (soprattutto) e Langhe come punti di riferimento. Ogni provincia la produce, ogni zona ha le sue eccellenze, che hanno hanno fatto dimenticare la tragedia del 1986, quando lo scandalo del metanolo rischiò di affossare un vino noto fino dal 1798, anno in cui entra nella prima ampelografia (la disciplina che studia i vitigni) redatta dalla Società agraria di Torino. Da quella pagina nera la Barbera passò all’apprezzamento generale grazie a un grande produttore come Giacomo Bologna, morto troppo giovane, che fece di Rocchetta Tanaro, nell’Astigiano, un punto di incontro per appassionati (qui la produceva anche Bruno Lauzi). Una storia in continua evoluzione, al punto che nel 2016 è nato il Cru Nizza, ultima Docg. E’ un vino camaleontico, adatto per essere bevuto giovane come invecchiato, vivace o fermo, per un pranzo di tutti i giorni oppure per un’occasione importante. Viene suddiviso in Barbera d’Alba doc, Barbera d’Asti Docg, Barbera del Monferrato Doc, Barbera del Monferrato superiore Docg, Colli Tortonesi Barbera e, per l’appunto, Nizza Docg.
Andare alla ricerca della Barbera vuol dire concedersi un giro per colline che fanno innamorare, con zone che variano in maniera inaspettata. Possono essere quelle del Monferrato alessandrino come quelle della Langa astigiana e albese, possono essere le colline di Pinerolo come quelle del Canavese. Questo vuol dire la possibilità di visitare città storiche come Asti, Alba e Casale Monferrato, lasciarsi coinvolgere dal fascino antico di Acqui Terme, incontrare luoghi sorprendenti come Rocchetta Tanaro e Montemagno, Serralunga di Crea e Vignale Monferrato (dove ogni estate si svolge un famoso festival di danza), conoscere paesi dal nome insolito come Celle Enomondo, Passerano Marmorito, Piovà Massaia o Borgoratto. Un viaggio senza fine e che non fa dimenticare altri vini rappresentativi di più zone: come il Dolcetto, che segue le orme della Barbera, il Freisa che si allarga anche al Torinese (come quella di Chieri), oppure il Moscato
Ma Piemonte significa pure territori più delimitati, che propongono peculiarità proprie e imperdibili. Per esempio il Roero, 19 comuni alla sinistra del Tanaro per anni schiacciati dalle più ingombranti Langhe. Qui si trova uno dei bianchi d’eccellenza come l’Arneis, insieme con il rosso Roero. Vini bianchi significa poi Gavi, nell’Alessandrino (insieme con il Cortese), oppure l’Erbaluce del Canavese. Tra Novara e Vercelli stanno invece ritrovando nuova popolarità Gattinara e Ghemme, anch’essi figli del nebbiolo. Mezzo secolo fa “tiravano” più dei cugini cuneesi, oggi non sono più appannaggio di pochi appassionati.
Il Ruchè deve invece la notorietà a don Giacomo Cauda, un sacerdote che negli Anni Settanta lottò a Castagnole Monferrato per salvare questo vitigno autoctono, oggi prodotto in sette comuni dell’Astigiano. Tutto del Monferrato Casalese è il Grignolino, complicato da realizzare, per una sfida che appassiona gli enologi più testardi. E altri vitigni a corto raggio sono il Pelaverga nel Cuneese, il Doux d’Henry del Pinerolese, il Calosso dell’Astigiano (più noto come Gamba di pernice), il rinato Timorasso del Tortonese, il Brachetto dell’Acquese, dolce e secco, il Cari delle colline torinesi. E queste ultime custodiscono uno dai rari vini di città (nelle grandi metropolitane europee si vendemmia solo a Parigi e a Vienna), il Villa della Regina, un Freisa di Chieri reimpiantata nell’edificio voluto dal principe Maurizio di Savoia all’inizio del Seicento: anche a pochi metri dal centro di Torino si producono bottiglie di alto pregio.